sabato 11 febbraio 2012

L'inganno dell'arte, del sistema arte.

Confusione e privazione di senso nell'arte contemporanea

Se si vanno a rivedere le parole di Filippo Tommaso Marinetti all’epoca della stesura del Manifesto Futurista ci si accorge immediatamente che qualcosa di molto grande è cambiato. Non tanto in termini di operazioni artistiche, ma in merito alle figure che ruotano intorno al mondo artistico.
Marinetti, di fatti, era convinto della superiorità della lungimiranza dell’artista, attribuendo allo stesso un ruolo di profeta , in quanto unico ad avere capacità di intuizioni folgoranti utili ad indirizzare la coscienza collettiva.
Ripensare a tutto ciò e farlo calzare al mondo/sistema dell’arte contemporanea non è possibile.
Cosa e quanto sia cambiato è evidente a tutti o, perlomeno, a chi di questo si interessa.
Lo spunto di riflessione mi viene dall’articolo di Jean Clair apparso il 5 febbraio scorso su Repubblica: L’inganno del critico. Articolo nel quale Clair ripercorre le tappe della nascita e dello sviluppo della figura del critico d’arte e della critica d’arte come disciplina.
La critica d’’arte è nata nel 18°secolo, quando le opere d’arte iniziano a non essere esclusivamente rivolte ad una committenza pubblica (“religiosa o principesca”), ma si fanno espressione di un gusto individuale e rivolte ad un pubblico profano. Ed è proprio il momento in cui le cosiddette “Belle Arti” sgombrano il campo in favore dell’arte come “qualità propria ed inimitabile di un individuo che si crede genio” (l’artista, appunto). Siamo intorno al 1750 e, parallelamente all’estetica, in conseguenza ad un’arte-oggetto per il piacere di privati, nascono la critica e il mestiere di critico.
Da lì in avanti il critico si è sostituito al resto, si è fatto interprete della mutezza delle opere d’arte, parlando per loro e, molto spesso, per l’artista stesso.
Si è fatto portavoce (e in taluni casi fautore) di manifesti esplicativi dei vari mari movimenti artistici, dettando regole e programmi (non più iconografici ma frequentemente “politici”). È avvenuto, nel tempo, quello che Clair nel suo articolo dice essere uno stato di “politica esteticizzata ed estetica politicizzata” cui l’artista si è trovato a dover obbedire.
Jean Clair, spiegando uno dei motivi che l’ha portato al “dimettersi” dall’essere critico d’arte, racconta la non troppo lunga vita del suo “Chroniques de l’art vivant”, rivista grazie alla quale ha sperimentato come sia possibile (in linea con l’ormai trito e ritrito McLuhan, il medium è il messaggio) lanciare sul mercato dell’arte nomi e prodotti a propria discrezione: non importa l’oggetto in sé ma la sua esposizione, il valore che si decide di attribuirgli e la pubblicità che gli si riesce a dare.
Clair ha descritto tutto ciò come “esperienza di arti fittizie e mercati ingannevoli”.
Una cosa non troppo diversa era stata detta da Vittorio Sgarbi durante l’intervista del 17 gennaio scorso per il Bollettino dell’Arte, nel corso della quale ha denunciato l’esistenza di una sorta di mafiosità nelle infrastrutture del mercato dell’arte, riferendosi proprio al ruolo giocato da alcuni critici contemporanei  nel condurre l’artisticità nel vicolo cieco del dogmatismo.
Lo stesso Sgarbi, in un articolo uscito su Il Giornale il 2 febbraio, riferendosi alla freschissima nomina di Massimiliano Gioni a direttore della Biennale di Venezia, ha trattato in modo davvero “critico” la figura del curatore indipendente che, “con il progredire dell’ignoranza e degli schieramenti  legati al mercato”, ha sostituito il critico.
Se, per tornare brevemente a Clair, la condizione essenziale per influenzare l’andamento della storia e del mercato dell’arte era l’accordo tra mercante, storico e critico d’arte , oggi vediamo sedersi in prima fila anche (e soprattutto) il curatore.
E qui, allora, mi collego all’articolo di Antonello Tolve (uscito sul numero di febbraio 2012 di ArsKey) intitolato “Cura della cura”. Articolo in cui Tolve prova a dare una definizione della figura professionale in questione. Il curatore: apparso negli anni ’90 del secolo scorso come prodotto di una frammentazione del lavoro, figura discutibile e discussa.
Figura professionale che avrebbe dovuto dare ordine in un quadro di ripensamento e modernizzazione delle esposizioni artistiche, nell’ideare e proporre percorsi espositivi e spunti di riflessione.
Il saggista-architetto Koolhaas parla di una professione “dove si approva o disapprova. Un sistema di selezione che espone e giudica” ed anche un ruolo che non può permettersi pietà, preparando “i nuovi talenti al loro debutto” salvo poi tagliarli fuori dalla scena “quando hanno esaurito l’attenzione del pubblico”.
È la logica dello spettacolo utile solo in quanto carburante della macchina economica e del ritorno personale di chi organizza o sponsorizza tutto questo.
A tal proposito si è espresso anche Charles Saatchi  che (pochi mesi fa su The Guardian) ha definito il nuovo mondo dell’arte contemporanea “profondamente imbarazzante”.
In un quadro più vasto, in cui se la prende con tutti, dai collezionisti al pubblico passando per i critici, Saatchi ha parlato di curatori insicuri e capaci di esporre esclusivamente “installazioni post-concettuali incomprensibili” apprezzabili solo dai loro colleghi “ugualmente insicuri”.
E ancora, un curatore descritto come gelido e opportunista, interessato unicamente al proprio percorso e alla propria carriera. Un “filippino della critica” l’ha definito Achille Bonito Oliva, un Globe-trotter dell’arte che dovrebbe piacere al premier Monti per la poca monotonia del suo lavoro e per il suo adattamento d’obbligo all’idea dell’uomo flessibile di Sennett (“i lavoratori di oggi sono sempre in cammino, costretti ad inseguire i repentini e imprevedibili mutamenti economici”).
Così, se per Jean Clair la fortuna delle opere d’arte, delle correnti e dei movimenti artistici sono decretate dall’unione di forze tra mercante, storico e critico; se per Vittorio Sgarbi esiste una mafia del mercato artistico diretto da alcuni critici ed operatori di settore; se Charles Saatchi dice che i collezionisti sono tanto ricchi quanto ignoranti per cui l’arte è solo affermazione sociale, che i curatori sono insicuri e inadeguati, che una parte di pubblico presenzia a tutte (veramente tutte) le vernici per disporre liberamente del buffet senza sapere per quale artista si stia facendo (la vernice); se Bonito Oliva parla del curatore come di un mercenario...
Se è tutto così, mi chiedo, colui che è l’artista (che la materia prima del sistema la produce, e che forse una qualche voce in capitolo dovrebbe ancora averla nel calderone dell’arte contemporanea) dov’è? Cosa fa? Quale gradino occupa?
Forse i vari curatori, i critici, gli storici (e così via) oggi sempre più simili a grandi manager, hanno dimenticato l'artista lungo la via della loro deprimente carriera.

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